Del Direttore: prof. Angelo D’Orsi
Ci sono persone che crediamo immortali, sia per l’energia che da loro promana come una sorta di fiume infrenabile, sia perché – ammettiamolo – di loro abbiamo bisogno, e quando se ne vanno, quando lasciano questo mondo, oltre al dolore proviamo una sorta di rabbia, e avremmo voglia di rimproverarli: “Perché te ne sei andato?”, è la domanda che ci sorge spontanea, anche se non osiamo proferire parola. Questi i pensieri che mi hanno attraversato quando ieri mi è arrivata, inattesa, ma in fondo temuta, la notizia della scomparsa di Gastone Cottino. Forse al di fuori di Torino, il suo è un nome non conosciutissimo, eppure si tratta di una figura esemplare, da tanti punti di vista, fra i quali personalmente privilegerei la capacità di coniugare scienza e milizia.
Di famiglia borghese, politicamente conservatrice (e lo diceva a mezza voce, quasi vergognandosene), figlio di Valerio, un prestigioso avvocato, Cottino professore emerito di Diritto commerciale, un’autorità nel ramo (non solo a livello nazionale: il suo Trattato di Diritto commerciale, da lui impiantato e diretto per la casa CEDAM, in ben 12 volumi è un’opera imprescindibile), a lungo preside di Giurisprudenza, ha formato decine di allievi che si sono fatti strada non solo nell’ambito del diritto commerciale, ma nelle scienze giuridiche e politiche.
Del resto, non fu mai un mero giurista, Cottino: troppo vasta la sua volontà di sapere, troppo largo il campo dei suoi interessi, che sempre associavano il mondo degli studi alla vita sociale e alla lotta politica. In sintesi, fu uno studioso che pur diventato presto un maestro nel suo territorio scientifico, seppe e volle sempre essere un cittadino, formatore di cittadini, un intellettuale insomma, che abbracciava interamente la sua epoca per citare una frase celebre di Jean-Paul Sartre.
Docente universitario assurto ai più alti gradi (era anche membro della più prestigiosa nostra istituzione, l’Accademia dei Lincei), non voltò le spalle, mai, ai problemi della collettività. Certo un ruolo rilevante lo ebbe il suo maestro, il grande giurista democratico Paolo Greco, e la biblioteca di famiglia, dove poteva trovare e leggere di tutto, per aprire gli occhi sul mondo, e sull’Italia. E come per altri della sua generazione (era nato nel 1925), il fascismo fu la grande occasione per capire da che parte stare. E nel Piemonte di Nuto Revelli, di Carlo Casalegno, di Franco Antonicelli, Paolo Boringhieri, Plinio Pinna Pintor, Luciano Gruppi…, tutti destinati a grandi cose, il giovanissimo Gastone si formò politicamente; e tutti loro respiravano l’aria dell’azionismo, tutti o quasi provenienti da Giustizia e Libertà, che aveva alle spalle il nome dei martiri per eccellenza, Carlo Rosselli, trucidato nel giugno 1937 in Francia, e Leone Ginzburg, morto dopo le sevizie naziste a Regina Coeli nel febbraio del ’44.
Era un panorama che a guardarlo oggi ci pare senza eguali: dai fratelli Galante Garrone a Giorgio Agosti, da Massimo Mila a Vittorio Foa, e via seguitando. Davvero la “meglio gioventù” torinese, che aveva trascorso buona parte di quegli anni nelle galere fasciste.
L’input decisivo a Gastone giunse però proprio dal suo docente Paolo Greco, liberale antifascista, il quale senza giri di parole, lo convocò e gli diede l’incarico di “tirar su, organizzare politicamente, militarmente” i giovani liberali, ricorda Cottino in quella che è la più recente, lunga intervista autobiografica (rilasciata a Francesca Chiarotto, sulle pagine della rivista Historia Magistra). Aveva solo 18 anni, Gastone, studente del 1° anno di Legge, quando entrò dunque nella Resistenza armata, col nome di “Lucio”. Con quel nome fu tra coloro che per primi entrarono a Torino, nella Brigata SAP Mingione, mentre gli ultimi repubblichini se la davano a gambe, o si nascondevano, non senza compiere feroci rappresaglie.
Anche se abbandonò il nome da partigiano, Gastone Cottino non smise di esserlo, fu anzi davvero un professore-partigiano, sempre dalla parte giusta, o, se si vuole “dalla parte del torto”, perché, come scrive Brecht, “tutti gli altri posti erano occupati”. Nella sua galleria di maestri ideali, oltre a un giurista che fu uno dei Padri Costituenti, come Piero Calamandrei, a lui piaceva ricordare soprattutto la “strana coppia” Gramsci-Gobetti, che esprimeva perfettamente la personalità e la cultura di Cottino: nella intervista ricordata, spiegava: “le due figure … mi hanno sempre aiutato entrambe, con le loro posizioni, pure in parte diverse, ma sempre sostanzialmente unificate dal filo comune di resistenza al potere, con il coraggio e il rigore, a sbrogliare il gomitolo della vita, del mio percorso politico e intellettuale”.
Un marxista liberale, insomma, che aveva sempre avuto come stella polare quel famoso binomio di Giustizia e Libertà: la prima ha bisogno della seconda, ma la seconda senza la prima si riduce alla libertà dei pochi, dei privilegiati. Perciò, dopo lo scioglimento del PCI aderì, per coerenza, a Rifondazione Comunista, rimanendovi fino alla fine, come un padre nobile che tuttavia non disdegnava di scendere in piazza, e di rischiare le manganellate della polizia. La vita, dichiarò, ci pone davanti a continue scelte. E, qui l’orgoglio si percepiva nettamente, “Io ho fatto una scelta nel settembre 1943: da che parte stare. Fu per me la scelta fondamentale”, ma aggiungeva, “non si vive mai di rendita”, sicché fu dalla parte degli algerini contro la Francia, dei vietnamiti contro gli Usa, degli studenti contro lo strapotere dei “baroni”, di coloro che dall’avvento di Berlusconi in avanti, si opposero a quello che egli chiamava “il degrado della politica”, contro i “falsi maestri”, che si piegavano al denaro e al potere, e con l’ascesa dei “post-fascisti” al governo della “Repubblica nata dalla Resistenza”, al pericolo di un pesante rigurgito di fascismo, di cui registrava puntualmente, da studioso, gli atti e li commentava sgomento, ma sempre combattivo, sempre pronto a rivestire idealmente, anche senza fucile a tracolla, i panni del partigiano Lucio.
Fonte: L’Unità 9 Gennaio 2024